Putin ha nuovamente dichiarato di “non avere intenzione di combattere l’Europa”, aggiungendo nella stessa frase di essere “pronto a farlo subito, se l’Europa lo vorrà”. Per l’Unione avrebbe dovuto essere un allarme definitivo. Da quasi quattro anni la Russia conduce una guerra su vasta scala contro l’Ucraina, eppure in Occidente c’è ancora chi si aggrappa alle sue rassicurazioni di facciata. Il punto, però, è che una parte del suo ragionamento fotografa un fatto: Mosca da tempo vive in modalità bellica, mentre l’Europa no.
Per anni l’Europa ha vissuto come in una “vacanza dalla storia”, convinta che la pace fosse ormai un dato permanente. Gli eserciti si sono ridotti, fabbriche e linee produttive sono state chiuse, la chimica e i componenti industriali sono stati delocalizzati verso la Cina, e interi settori strategici dipendono ora dalle catene di approvvigionamento globali. Oggi scopriamo che quelle catene non servono soltanto a ottimizzare i costi: possono diventare armi. Basta un singolo componente perché la produzione di un drone europeo si fermi, se da Pechino arriva l’ordine di chiudere il rubinetto.
Anche la realtà dei programmi di difesa è impietosa. Il Fondo Europeo per la Difesa stanzia circa un miliardo l’anno per la ricerca e sviluppo dell’intero continente: una cifra accettabile in tempi di pace, ma irrilevante quando si fronteggia un avversario che produce e combatte in logica da economia di guerra. Non è mobilitazione: è un esercizio tecnico che non cambia la realtà sul terreno.
Lo stesso settore automobilistico europeo lo ammette apertamente: il 95% del suo business è civile, mentre le piattaforme militari restano un prodotto marginale. Tuttavia, il fronte non legge documenti strategici: conosce solo la realtà. In Ucraina, intanto, si producono già milioni di droni l’anno. Ogni cinque-otto secondi un nuovo UAV esce dalla linea. Non servono presentazioni, non si aspettano bandi. Non è imprenditorialità: è sopravvivenza; ma è anche un patrimonio di esperienza che l’Europa potrebbe integrare nella propria architettura di difesa.
Oggi Putin colpisce Kharkiv, domani potrebbe prendere di mira Narva, la città estone affacciata sul confine russo; il Suwałki Gap, il corridoio strategico tra Polonia e Lituania considerato il punto più vulnerabile della NATO; Kaunas, la seconda città della Lituania, a pochi passi dal fronte orientale dell’Alleanza; o Chișinău, la capitale moldava che vive sotto la costante pressione russa. E se nelle capitali europee prevarrà ancora il mantra “non vogliamo la guerra, quindi non accadrà”, il rischio è di risvegliarsi un mattino come accadde nel febbraio 2022.
Per evitare che ciò accada, l’Europa deve compiere tre passi essenziali. Primo: smettere di credere a qualsiasi garanzia proveniente dal Cremlino. Ogni volta che Putin afferma “non intendiamo farlo”, il passo successivo è l’esatto contrario. Secondo: trasformare la strategia in mobilitazione industriale. La difesa deve essere considerata una infrastruttura essenziale, al pari dell’energia o della sanità. Terzo: abbandonare la percezione dell’Ucraina come semplice beneficiaria di aiuti. Kyiv è già parte integrante dell’ecosistema di sicurezza europeo e sta sviluppando soluzioni tecnologiche operative in combattimento, oggi, non in teoria.
Quando un dittatore che ha già scatenato una guerra su larga scala dichiara “non voglio la guerra con voi, ma se succede sono pronto”, non sta minacciando: sta descrivendo la situazione. La domanda non è se l’Europa voglia o meno la guerra. La domanda è se abbia finalmente deciso di prepararsi alla pace che deve essere difesa. Nulla è più pericoloso di un continente convinto di avere ancora tempo. Perché quel tempo, semplicemente, non c’è più.
