L’Europa rischia di diventare il nuovo terminale dell’ondata di merci cinesi respinte dagli Stati Uniti. Dopo l’inasprimento dei dazi deciso da Donald Trump, Pechino ha iniziato a dirottare parte della propria produzione verso l’Eurozona, dove le barriere commerciali restano più basse e la domanda di beni a basso costo è ancora sostenuta. L’effetto si sta già facendo sentire tra le aziende europee, costrette a fronteggiare una concorrenza sempre più agguerrita da parte di prodotti cinesi spesso sostenuti da ingenti sussidi pubblici e venduti a prezzi con cui i produttori locali difficilmente riescono a competere. La sovrapproduzione cinese, alimentata da una domanda interna debole e da politiche industriali espansive, cerca ora nuovi sbocchi in mercati aperti come quello europeo.
Le conseguenze vanno oltre il semplice equilibrio commerciale. Un afflusso massiccio di prodotti cinesi nell’Eurozona potrebbe infatti contribuire a raffreddare ulteriormente l’inflazione, già in calo rispetto ai picchi del biennio scorso. In apparenza una buona notizia per i consumatori, che vedrebbero scendere i prezzi, ma in realtà un rischio per l’economia europea.
I dati dell’ufficio di statistica di Pechino confermano il riorientamento dei flussi commerciali. A settembre l’export complessivo cinese è cresciuto dell’8,3%, ma le esportazioni verso gli Stati Uniti sono crollate del 27%, mentre quelle dirette verso l’Unione europea sono aumentate del 14% e addirittura del 30% verso l’Italia. Secondo le elaborazioni di Unicredit, nei sei mesi tra aprile e settembre 2025 le vendite cinesi verso gli Usa sono diminuite del 25% su base annua, mentre sono cresciute del 10% verso l’Europa e del 13% verso il resto dell’Asia. La banca osserva che non si è ancora arrivati a un riorientamento “insostenibile” delle merci, ma invita alla prudenza: i settori più esposti potrebbero essere quelli dei macchinari e dei beni di consumo ad alto valore aggiunto, dove la competizione cinese rischia di comprimere i margini di molte imprese europee.
Le contromisure dell’Ue, tuttavia, si muovono in uno spazio di manovra ristretto. L’Europa, fortemente dipendente dagli scambi internazionali e da un export che pesa in modo rilevante sul Pil, non può permettersi di inasprire troppo le barriere commerciali senza rischiare ritorsioni da parte di Pechino. Limitare l’accesso delle aziende europee al mercato cinese o bloccare l’export di minerali critici potrebbe ritorcersi contro le stesse industrie del continente, soprattutto quelle più integrate nelle catene globali del valore. Per questo, gli analisti invitano i governi a mosse “chirurgiche”, capaci di difendere i settori strategici senza innescare un’escalation commerciale.
La vicenda di Nexperia, società olandese di semiconduttori controllata dal gruppo cinese Wingtech, ha messo in evidenza tutti i limiti della capacità europea di difendersi. Sotto pressione di Washington, il governo olandese ha assunto il controllo dell’azienda, una decisione senza precedenti che ha provocato la reazione di Pechino. In risposta, la Cina ha imposto restrizioni alle forniture di materie prime verso gli stabilimenti olandesi, generando allarme in tutta l’industria automobilistica europea. L’Ue, così, si ritrova ancora una volta risucchiata nel confronto commerciale tra Stati Uniti e Cina, con pochi strumenti reali per proteggersi.
Il rischio è che si ripeta quanto avvenne già nel 2018, quando parte dell’export cinese colpito dai dazi americani trovò sbocco in Europa. Oggi, però, le dimensioni del fenomeno potrebbero essere ben maggiori. Bruxelles valuta l’introduzione di dazi fino al 50% sull’acciaio e prepara contromisure per rispondere alle restrizioni cinesi sulle terre rare, ma il futuro dello scontro commerciale dipenderà anche dai rapporti tra Trump e Xi Jinping. Il presidente americano ha parlato di un possibile “buon accordo” con Pechino, dopo aver minacciato dazi aggiuntivi del 100%. Un’intesa, tuttavia, sembra lontana. E mentre le due superpotenze continuano il braccio di ferro, l’Europa rischia di trasformarsi nel campo di battaglia economico su cui si riversano gli effetti collaterali della nuova guerra dei dazi.
