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Altro che tregua: 15 anni al giudice che ha osato incriminare Putin

Mentre a parole parla di tregua e di possibili spiragli negoziali sull’Ucraina, Mosca sceglie ancora una volta i fatti per chiarire la propria linea: l’ennesima provocazione, studiata per ribadire che l’unica legge che riconosce è quella della forza. In una settimana definita dal Cremlino “decisiva”, un tribunale della capitale russa ha condannato in contumacia a 15 anni di carcere Rosario Aitala, magistrato italiano e primo vicepresidente della Corte penale internazionale, colpevole di aver osato applicare il diritto laddove il potere russo pretende l’impunità. Il suo “crimine” è noto: aver contribuito all’indagine che ha portato al mandato di arresto contro Vladimir Putin per la deportazione illegale di bambini ucraini e, successivamente, per altri crimini di guerra, dalla distruzione deliberata di infrastrutture civili agli attacchi contro la popolazione.

La sentenza è stata emessa da un tribunale di Mosca presieduto da Andrey Suvorov, uno dei giudici simbolo della repressione giudiziaria russa. Formalmente si tratta di una decisione giudiziaria, ma nella sostanza è un atto politico che porta la firma diretta di Putin e che serve a un solo scopo: intimidire e colpire chiunque metta in discussione l’arbitrio del potere del Cremlino e l’impunità del suo vertice.

Non a caso, insieme ad Aitala sono stati condannati altri otto magistrati della Corte penale internazionale, accusati di aver “perseguito persone innocenti” e addirittura di “tentata violenza” contro persone che, secondo Mosca, godrebbero di protezione internazionale. Un capovolgimento grottesco della realtà, in cui l’aggressore si presenta come vittima e chi indaga sui crimini diventa il criminale. La Corte penale internazionale aveva emesso il primo mandato di cattura contro Putin e contro la commissaria russa per i diritti dei bambini, Maria Lvova-Belova, nel marzo 2023, per la deportazione illegale di minori ucraini. Da allora Mosca ha reagito non con argomentazioni giuridiche, ma con minacce, procedimenti penali e campagne di intimidazione, liquidando quel mandato come “nullo”.

Oltre al magistrato italiano, sono stati colpiti l’ex presidente della Corte Petr Józef Hofmański, l’attuale presidente Tomoko Akane, il secondo vicepresidente Reine Alapini-Gansou e i giudici Sergio Gerardo Ugalde Godínez, Haikel Ben Mahfoud, Luz del Carmen Ibáñez Carranza e Bertram Schmitt. Tutti inseriti in una lista di ricercati internazionali, in un’ulteriore escalation che potrebbe arrivare persino a un tentativo di coinvolgere Interpol, piegando strumenti di cooperazione a fini politici. In Russia, intanto, i manifesti con il volto di Aitala affissi per le strade di Mosca e di altre città completano il quadro: la gogna pubblica come metodo di governo.

Dall’Aja non sono arrivati commenti, e la Corte ha continuato a lavorare regolarmente. È una risposta silenziosa ma eloquente a chi tenta di demolire l’idea stessa di giustizia internazionale. Il nervosismo del Cremlino è cresciuto quando i mandati della Cpi non si sono fermati a Putin, ma hanno iniziato a colpire l’intera catena di comando militare. Tra gli indagati figurano anche l’ex ministro della Difesa Sergeij Shoigu e il capo di stato maggiore Valery Gerasimov, accusati di crimini di guerra contro i civili e ritenuti corresponsabili, insieme allo stesso Putin, delle decisioni prese durante l’invasione dell’Ucraina. Shoigu, alleato storico del presidente russo e oggi segretario del Consiglio di sicurezza, e Gerasimov rappresentano il cuore dell’apparato militare e politico che sostiene la guerra e che oggi teme l’erosione della propria impunità.

La Russia nega di aver colpito civili o strutture civili, ma le immagini che vengono dalla martoriata Ucraina da quasi quattro anni dicono il contrario. 

La condanna dei giudici della Cpi va ben oltre la propaganda: è un messaggio politico rivolto all’intera comunità internazionale. Mosca non ha alcuna reale volontà di trattare né di rispettare regole condivise. Punta a riaffermare la legge della sopraffazione, a svuotare e distruggere il diritto internazionale e a imporre l’idea che la forza prevalga su tutto. In questo senso, la sentenza contro i magistrati dell’Aja non è un episodio isolato, ma un tassello coerente della guerra di Putin non solo contro l’Ucraina, ma contro le regole stesse della convivenza pacifica tra gli Stati.

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