Gli Stati Uniti hanno finalmente deciso di agire. Dopo mesi di rinvii e pressioni diplomatiche, Washington ha imposto sanzioni alla compagnia petrolifera serba NIS, controllata in larga parte dal colosso russo Gazpromneft. La decisione, attesa e più volte rimandata su richiesta di Belgrado, segna un punto di svolta nella strategia americana di contenimento dell’influenza russa nei Balcani. È una mossa tardiva, ma necessaria: la Serbia, che da anni gioca su due tavoli, mantenendo legami economici e politici con Mosca mentre si dichiara candidata all’Unione Europea, paga ora il prezzo della propria ambiguità.
La misura, entrata in vigore all’alba di giovedì, colpisce il principale fornitore di carburante del Paese, un’azienda che impiega cinquemila persone e rappresenta quasi il 12 per cento delle entrate fiscali nazionali. Con una partecipazione russa del 45 per cento e una quota statale serba del 30, la NIS è sempre stata un simbolo della dipendenza energetica di Belgrado da Mosca. Washington, intervenendo, ha deciso di tagliare una delle ultime vie attraverso cui il Cremlino esercitava il suo potere economico in una regione cruciale.
Le conseguenze saranno immediate. L’oleodotto croato Janaf, attraverso cui la Serbia riceve il greggio necessario alla raffinazione, ha sospeso le forniture, interrompendo di fatto il funzionamento della raffineria di Pančevo, cuore della produzione nazionale. NIS ha già bloccato i pagamenti elettronici con carte Visa e MasterCard, una misura che segnala l’isolamento crescente del sistema economico serbo dal circuito occidentale. È un colpo pesante per un Paese che, nonostante le dichiarazioni di neutralità, ha continuato a mantenere relazioni strategiche con la Russia anche dopo l’invasione dell’Ucraina.
Il presidente Aleksandar Vučić ha reagito con la consueta ambiguità, definendo “l’ultima opzione” la nazionalizzazione dell’azienda e assicurando che la Serbia non si piegherà alle pressioni. Ma la realtà è che Belgrado si trova ora intrappolata tra la dipendenza energetica da Mosca e la necessità di non alienarsi definitivamente l’Occidente. L’economia serba, già fragile, rischia di subire una contrazione significativa: senza l’approvvigionamento stabile di greggio, la produzione rallenterà, i prezzi aumenteranno e la disoccupazione crescerà. È il costo prevedibile di una politica estera che ha scelto di non scegliere.
Le autorità serbe provano a rassicurare la popolazione sostenendo che le scorte di carburante siano sufficienti per diversi mesi, ma gli esperti sono scettici. “Le riserve sono modeste e non dureranno a lungo”, avverte l’economista Miloš Zdravković. Anche se per ora i serbi non percepiranno un’immediata carenza, il mercato dovrà presto fare i conti con rincari e scarsità. La Serbia, isolata dai circuiti bancari occidentali, potrebbe presto dover cercare vie alternative di approvvigionamento, affidandosi a rotte più costose e meno sicure.
Washington, da parte sua, ha mandato un messaggio chiaro: non ci sono più eccezioni per chi continua a mantenere legami con la macchina economica del Cremlino. Dopo anni di pazienza diplomatica, gli Stati Uniti hanno scelto la linea dura, riaffermando che l’allineamento con Mosca comporta costi concreti. La Serbia, che ha beneficiato a lungo della tolleranza occidentale, scopre ora che l’ambiguità non è più un rifugio.
La decisione americana non è solo una punizione, ma un segnale politico forte. Dimostra che il tempo della neutralità di facciata è finito nei Balcani: chi continua a trarre profitto dall’asse con la Russia dovrà affrontarne le conseguenze economiche. In questo senso, le sanzioni contro NIS non sono un errore, ma un atto di coerenza strategica. Washington interviene là dove l’Europa ha esitato troppo a lungo, colpendo uno dei canali più evidenti della penetrazione russa nella regione.
Mentre Belgrado accusa l’Occidente di ingerenza e tenta di minimizzare gli effetti, la verità è che la crisi che si profila non è il frutto delle sanzioni, ma delle scelte politiche della Serbia stessa. Il governo di Vučić ha preferito rimanere legato a Mosca, ignorando gli avvertimenti e rinviando ogni decisione di allineamento con il blocco euroatlantico. Ora il conto arriva, e Washington – finalmente – ha deciso di presentarglielo.