Parigi si è svegliata con un’eco insolita: quella di otto vetrine vuote nella Galerie d’Apollon del Louvre, il cuore simbolico dell’arte francese. È lì che, il 19 ottobre, una banda di ladri ha trafugato gioielli reali per un valore stimato di 88 milioni di euro. Un furto compiuto in pieno giorno, con una precisione quasi chirurgica. Otto minuti. Non uno di più.
Quattro uomini, travestiti da operai, un furgone con piattaforma elevatrice, due potenti scooter per la fuga. Tutto studiato al millimetro, tutto eseguito con freddezza militare. Ora, dieci giorni dopo, la storia si infittisce. La procura di Parigi ha annunciato cinque nuovi fermi, tra cui un sospetto chiave, identificato grazie a tracce di DNA trovate sulla scena. “Era uno dei nostri obiettivi principali. Lo tenevamo d’occhio”, ha dichiarato la procuratrice Laure Beccuau. Gli arresti sono scattati tra la capitale e la Seine-Saint-Denis, la stessa zona dove, pochi giorni prima, erano finiti in manette due uomini di 34 e 39 anni, ora formalmente indagati per furto in banda organizzata e associazione a delinquere.
Eppure, i gioielli restano scomparsi, e con loro le risposte alle domande più spinose. Come hanno potuto penetrare nel museo più sorvegliato del mondo senza lasciare quasi tracce? E chi ha avuto le risorse e le informazioni per rendere possibile un piano simile? La direttrice del Louvre, Laurence des Cars, non nasconde l’amarezza: “Questo furto non era inevitabile.” Una frase che pesa come un’ammissione.
Ma nelle ultime ore, un nome ha iniziato a circolare, sottovoce, prima nei corridoi, poi sui social. Un nome che apre scenari che nessuno aveva previsto: Pierre Malinowski. Ex militare francese, ex Legione Straniera, storico di guerra diventato figura di spicco nei circoli franco-russi. Nel 2018 ha fondato a Mosca la Fondation pour le développement des initiatives historiques franco-russes, diretta insieme a Elizaveta Peskova, figlia del portavoce del Cremlino. Nel 2022 ha ricevuto la cittadinanza russa per decreto. Da allora, vive a metà tra due identità, due storie, due mondi. Sui social qualcuno lo descrive come “il cittadino russo ed ex legionario sospettato di aver guidato la banda del Louvre”. Ma nessuna autorità lo conferma. Nessun mandato, nessuna prova. Solo un nome che ritorna, come un’eco.
Eppure, se questa pista trovasse riscontri, il furto al Louvre cambierebbe significato. Non più un colpo spettacolare ai danni del museo più celebre del pianeta, ma un’operazione con implicazioni che toccano la geopolitica, il potere, il denaro. Un gesto simbolico e strategico al tempo stesso, capace di insinuarsi tra Parigi e Mosca, tra la diplomazia e l’ombra.
Per ora, restano solo i fatti: cinque arresti, due indagati, nessun gioiello ritrovato. Eppure qualcosa, in questa storia, non torna. È come se il furto del secolo fosse solo il sipario — e dietro di esso, si muovessero attori che recitano un copione più grande, scritto altrove.

