Il 16 ottobre 2025, un gran giurì federale del Maryland ha incriminato l’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton con otto capi d’accusa ai sensi del 18 U.S.C. § 793, una delle disposizioni centrali dell’Espionage Act del 1917. La norma, concepita in piena Prima guerra mondiale, vieta la raccolta, la conservazione e la trasmissione non autorizzata di informazioni relative alla difesa degli Stati Uniti. In altre parole, protegge il confine fragile tra ciò che può essere ricordato e ciò che deve restare segreto.
Secondo i pubblici ministeri, Bolton avrebbe trasformato la propria abitudine di annotare scrupolosamente decisioni e retroscena delle più delicate riunioni di governo in un comportamento penalmente rilevante. L’uomo che per decenni aveva incarnato la linea più dura della politica estera americana si troverebbe ora a rispondere di violazioni della stessa legge nata per prevenire fughe di notizie e atti di spionaggio.
Diplomatico di lungo corso, Bolton ha attraversato quasi mezzo secolo di potere a Washington fino all'amministrazione di Donald Trump, di cui fu consigliere per la sicurezza nazionale tra il 2018 e il 2019. Il suo libro del 2020, The Room Where It Happened, sottoposto a revisione governativa prima della pubblicazione, testimoniava la sua familiarità con le regole sulla classificazione dei documenti. Eppure — sostiene l’accusa — Bolton avrebbe ignorato quei limiti, inviando materiale riservato tramite canali non protetti, convinto forse che il suo diritto alla memoria personale potesse prevalere sul vincolo del segreto.
Tra aprile 2018 e settembre 2019, l’ex consigliere avrebbe trasmesso a due parenti oltre un migliaio di pagine di appunti digitali contenenti informazioni classificate fino al livello TOP SECRET/SCI, utilizzando account AOL, Gmail e un’app di messaggistica commerciale. Quelle note, ricavate da briefing nella Situation Room, sessioni di intelligence e colloqui con leader stranieri, cominciavano spesso con formule rivelatrici: “il briefer dell’intelligence ha detto…” oppure “mentre ero nella Situation Room, ho appreso che…”. In un messaggio del luglio 2018, allegando un documento di 24 pagine, Bolton scrisse ironicamente: “Di cui non parliamo!!” — a cui un familiare rispose con un altrettanto ironico “Shhhh”.
Dopo la sua uscita dalla Casa Bianca, tra il settembre 2019 e il luglio 2021, un un attore informatico – un hacker collegato all’Iran – avrebbe violato la sua casella di posta personale, accedendo a quella raccolta di materiali sensibili. Quando lo staff di Bolton segnalò l’intrusione alle autorità federali, omise però — secondo l’accusa — di rivelare che l’account conteneva segreti della difesa nazionale e che tali informazioni erano già state condivise con persone non autorizzate. Una lacuna che, per i procuratori, avrebbe rallentato le operazioni di controspionaggio e impedito una valutazione accurata dei danni.
Il processo promette di essere un banco di prova per l’interpretazione dell’Espionage Act in un’epoca in cui la distinzione tra documento e memoria, tra archivio personale e segreto di Stato, diventa sempre più labile. Se le accuse verranno confermate, Bolton rischierebbe pene severe; ma anche un’eventuale assoluzione non cancellerebbe la questione di fondo: fino a che punto un funzionario può “possedere” la storia che ha vissuto?
Perché dietro l’imputazione di Bolton non c’è solo un presunto reato, ma un paradosso: la democrazia liberale americana si regge su una memoria pubblica — trasparente, verificabile — ma si difende grazie al segreto. E quando le due dimensioni collidono nella stessa persona, il risultato non può che essere esplosivo.
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