Pechino continua a presentare al mondo il suo colossale sistema ferroviario ad alta velocità come il simbolo di una modernità trionfante. Quarantacinquemila chilometri di binari scintillanti, cifre da capogiro che superano di gran lunga le reti europee e giapponesi, un apparato costruito in tempi record e celebrato come dimostrazione tangibile della “superiorità del modello cinese”. Ma la realtà che emerge dietro i dati ufficiali è ben diversa: sotto la patina propagandistica si nasconde un’infrastruttura economicamente insostenibile, gonfiata da debiti mastodontici, popolata di stazioni fantasma e tratte deserte, che sta diventando un macigno per le casse pubbliche e un boomerang politico per il Partito comunista.
Le cifre trapelate parlano chiaro. Il National Audit Office, in un rapporto tenuto a bassa voce, ha segnalato perdite per circa 100 miliardi di yuan solo nei primi nove mesi del 2024. Un dato enorme, ma comunque incompleto: i bilanci aggregati della China State Railway Group mescolano linee veloci e linee tradizionali, rendendo quasi impossibile capire dove si concentra la voragine. Quel che è certo è che il sistema ad alta velocità non si regge in piedi. Su 45.000 chilometri di binari, appena 2.300 sono in grado di generare profitti. Le uniche tratte realmente redditizie sono quelle che collegano le megalopoli della costa, come Pechino-Shanghai o Guangzhou-Shenzhen. Tutto il resto è in perdita costante, mantenuto artificialmente in vita a colpi di sussidi e di debito pubblico.
Il paradosso è che i cittadini cinesi, soprattutto i migranti e i lavoratori meno abbienti, preferiscono ancora i vecchi treni lenti e sovraffollati, perché i biglietti dell’alta velocità sono proibitivi: viaggiare in freccia può costare uno o due giorni di salario. Così le linee inaugurate a suon di slogan rimangono vuote, con fermate costruite in città medie e piccole che oggi sono diventate monumenti allo spreco: stazioni moderne e deserte, binari senza passeggeri, terminal chiusi pochi anni dopo l’apertura. Un panorama che ricorda quello delle “città fantasma” edificate per inseguire la crescita a doppia cifra, e che oggi sono la prova tangibile di una strategia di sviluppo basata più sulla propaganda che sulla realtà dei bisogni.
La stessa gestione del sistema ferroviario rivela le contraddizioni del regime. Nel tentativo di arginare le perdite, nel 2024 sono stati aumentati i prezzi su alcune tratte di punta fino al 20% e ridotti i servizi sulle linee periferiche. Ma questi aggiustamenti non hanno fatto altro che accentuare le disuguaglianze: chi può permetterselo viaggia più veloce, mentre le classi popolari vengono spinte su treni vecchi e sempre più affollati. Il risultato è un apparato che non solo non genera ricchezza, ma acuisce le fratture sociali e mette a nudo il fallimento di un progetto che doveva incarnare l’orgoglio nazionale.
L’alta velocità cinese, dunque, non è la dimostrazione della “grande rinascita” del Paese, ma il simbolo dei limiti di un modello che si regge su investimenti faraonici, censura dei dati e propaganda di regime. Lontano dai riflettori, il Partito comunista si trova davanti a un dilemma: continuare a drogare il sistema con sussidi sempre più costosi, oppure ammettere che il sogno dell’alta velocità totale si sta trasformando in un incubo finanziario e politico. Un’ammissione che Pechino non può permettersi, ma che i numeri rendono ormai innegabile.
Il punto è che l’alta velocità cinese non è mai stata un progetto economico. È sempre stata un progetto politico. Non contava la sostenibilità, contava la velocità. Non contavano i bilanci, contavano i trofei da esibire. Le banche avevano bisogno di concedere prestiti, i funzionari locali di lasciare un monumento alla propria carriera, Pechino di mostrare al mondo un simbolo di modernità. Chi paga, oggi, sono i cittadini: bollette più alte, ticket sanitari più pesanti, tasse scolastiche in aumento.
Quello delle ferrovie è solo un capitolo di un ciclo che si ripete. Ieri i treni, domani le città intelligenti, i veicoli elettrici, le nuove economie “a bassa quota”. Ogni volta lo stesso schema: lanci spettacolari, collasso economico, rebranding propagandistico. La Cina ha costruito i treni più veloci del mondo, ma molti di essi corrono a vuoto, diretti verso un abisso finanziario.
Dietro ogni stazione fantasma restano storie di persone comuni: il proprietario di un piccolo ristorante fallito dopo aver scommesso sull’arrivo di passeggeri che non sono mai arrivati, l’insegnante che attende da mesi lo stipendio, il giovane laureato che compra un biglietto di sola andata perché restare significa condannarsi a un futuro senza prospettive. L’alta velocità doveva rappresentare la modernità. Oggi rischia di essere ricordata come la corsia più rapida verso la bancarotta.
La domanda, allora, è inevitabile: questo è progresso o solo l’illusione di un Paese che corre troppo in fretta verso il proprio declino?