La débâcle più devastante di Gazprom: crolla del 6% in Borsa perché non ha soldi per pagare dividendi
L'ultima debacle russa è forse la più devastante: Gazprom lunedì sera è crollata alla Borsa di Mosca di quasi il 6%, le sue azioni sono scese a 145,03 rubli, il minimo dall’ottobre 2023, e la causa è significativamente angosciante e densa di conseguenze politiche per il Cremlino: Gazprom non ha soldi in cassa per pagare dividendi in base ai risultati operativi nel 2023.
Nel background di questi eventi c’è la decisione, ormai imminente, del governo russo di preparare una direttiva sul rifiuto di pagamenti, il che fa sì che la capitalizzazione di Gazprom diminuisca di 144 miliardi di rubli (quasi 1,6 miliardi di dollari). In poco più di un’ora.
Gazprom è in una situazione tremenda, e sta disperatamente cercando mercati e alleati. L’anno scorso, per la prima volta in 25 anni, la società ha chiuso con una perdita netta e le dimensioni della perdita - 629 miliardi di rubli (6,9 miliardi di dollari) - sono salite al livello record in tre decenni della sua storia recente. Dopo la perdita del mercato europeo a causa delle sanzioni occidentali (quelle che secondo gli espertoni dei talk show italiani non funzionano), le esportazioni di Gazprom sono scese ai livelli del 1985 (69 miliardi di metri cubi) e sono cadute di tre volte al di sotto dei livelli prebellici.
Ha colpito, due giorni fa, l’assenza del CEO dell’azienda, Alexei Miller, uno degli oligarchi più potenti del regime di Putin, nella delegazione russa per la visita in Cina del presidente russo. Ma Gazprom ha solertemente fatto sapere con una nota che Miller era in visita di lavoro in Iran, dove ha incontrato il primo vicepresidente iraniano Mohammad Mokhber (l’uomo che ora dovrebbe raccogliere l’interim dopo la morte di Raisi) e il ministro del petrolio iraniano Javad Owji. Incapace di vendere gas, Gazprom è stata costretta a congelare i pozzi e in due anni ha perso un quarto della produzione, il cui volume l'anno scorso è diventato il più basso della sua storia. Forse Teheran potrebbe addolcire la perdita, ma in realtà l’unico grande partner in grado di aiutare Putin è Pechino. Ma Xi Jinping non sembra avere alcun interesse a tirar davvero Mosca fuori dai guai.
Vladimir Putin in effetti contava sulla Cina e le ha offerto, oltre al gasdotto Power of Siberia, la costruzione di un secondo gasdotto - Power of Siberia 2 – con una capacità di 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla regione di Yamal, nella Russia settentrionale, alla Cina, passando per la Mongolia. La sua capacità sarebbe quasi pari a quella del gasdotto NordStream 1, ora inattivo, che passa sotto il Mar Baltico e è stato danneggiato dalle esplosioni del 2022. Ma il viaggio a Pechino da questo punto di vista è andato non bene: Putin non riesce a ottenere l’approvazione di Pechino, nonostante le assicurazioni di «amicizia» e di partenariato «strategico» e «senza confini». Il dittatore russo non ha ricevuto nessun nuovo contratto e Xi Jinping non ha mai citato né il gas russo né il gasdotto russo-cinese nei commenti ufficiali del vertice (né la cosa si ritrova minimamente nelle trascrizioni ufficiali sul sito del Cremlino). Peraltro, secondo la maggior parte degli analisi Pechino non vuole investire un solo yuan nel progetto, chiedendo alla Russia di sostenere da sola il conto della costruzione.
E non c’è solo il gas, ad andare male. La situazione per il bilancio russo si sta aggravando anche per le mancate entrate dalla vendita di petrolio, perché – sempre a causa delle sanzioni, stavolta americane - quasi 40 petroliere soggette alle sanzioni statunitensi hanno smesso di trasportare petrolio russo, secondo una mappatura di Bloomberg. Queste navi sono accusate dal Dipartimento del Tesoro principalmente per aver violato il tetto dei prezzi e frodato gli assicuratori occidentali, che possono fornire servizi finanziari solo a quei commercianti che acquistano petrolio dalla Russia per non più di 60 dollari al barile. In totale sono state sanzionate 21 petroliere Sovcomflot, e delle altre 19 petroliere colpite, 18 sono di proprietà di Hennesea Holdings Ltd. dagli Emirati Arabi Uniti.
Di queste 40 petroliere solo una, la Sovcomflot Primorye, ha caricato petrolio dopo essere stata inclusa nella lista delle sanzioni, ma ora si sta spostando in Asia. Le altre sono tutte vuote. Otto petroliere Sovcomflot sono state localizzate vicino ai porti di Vladivostok e Nakhodka, alcune già da cinque mesi. Vuote. Altre sette sono tornate nel Mar Nero in questi cinque mesi. Tre sono rimaste in disarmo nel Baltico.