La diplomazia americana riscritta al telefono, ma dalla parte sbagliata della storia. Una trascrizione riservata di una telefonata tra l’inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff e i massimi consiglieri del presidente russo Vladimir Putin – rilanciata come scoop da Bloomberg – ha fatto detonare una crisi politica a Washington, dove l’opinione pubblica vede nelle parole dell’emissario americano un indice allarmante di deferenza verso Mosca.
Nel colloquio, Witkoff rivendica di avere “ampio spazio e discrezionalità” per arrivare al deal sulla guerra in Ucraina, un mandato a mano libera che non somiglia a un’investitura negoziale, ma a un lasciapassare per ridefinire l’equilibrio al tavolo della pace in favore del Cremlino. La telefonata, lungi dall’essere un episodio isolato, si incastona in una sequenza di interazioni avvolte dal sospetto: otto chiamate dirette tra Trump e Putin, cinque incontri personali tra Witkoff e il leader russo, un summit in Alaska celebrato come promessa di svolta e una trattativa che il Cremlino, ancora una volta, ha usato per guadagnare tempo.
Il 14 ottobre, nel dialogo con Yuri Ushakov, consigliere di politica estera di Putin, Witkoff non si limita a esplorare margini: incoraggia il presidente russo a contattare Trump prima dell’imminente visita di Volodymyr Zelensky, una mossa percepita da analisti e legislatori come un’interferenza preventiva nell’agenda diplomatica ucraina e un tentativo di condizionare il terreno negoziale in anticipo.
Due settimane dopo, il 29 ottobre, Kirill Dmytriyev, emissario economico del Cremlino, appena rientrato da un incontro con Witkoff a Miami, riferisce a Ushakov che, a suo giudizio, il futuro piano di pace statunitense sarebbe stato “il più possibile” aderente alle proposte russe.
In simultanea, mentre gli Stati Uniti sanzionavano in ottobre le due più grandi compagnie petrolifere russe – un atto di pressione per comprimere i flussi finanziari del conflitto – dagli stessi canali riservati si lavorava a una spinta diplomatica che sembrava svuotare di forza quel messaggio, offrendo a Mosca segnali di apertura conciliatoria, un cortocircuito di leve strategiche e messaggi politici che ha scosso alleati europei, diviso i repubblicani al Congresso e consolidato in Ucraina la sensazione di essere trattata come posta accessoria del negoziato.
Il Congresso, scosso dalle implicazioni della fuga di notizie, ha mostrato un’insorgenza rara di critiche trasversali. Il Caucus sull’Ucraina, un gruppo informale e bipartisan di deputati e senatori del Congresso americano, nato per coordinare e promuovere il sostegno politico, economico e militare a Kyiv, ha reagito alle rivelazioni con un’indignazione che non ha lasciato spazio ai distinguo. Brian Fitzpatrick, co-presidente del Caucus, ha tuonato contro “ridicoli vertici paralleli e incontri segreti”, chiedendo la fine immediata delle manovre dietro le quinte che hanno fatto perdere credibilità agli Stati Uniti proprio nel momento in cui servirebbe unità e fermezza. Sul fronte democratico, Mike Quigley ha alzato il tiro, puntando dritto al cuore del problema: un presidente “inspiegabilmente morbido con Putin”, ma soprattutto un inviato, Witkoff, che ha operato come se il suo compito fosse facilitare l’aggressore, non mediare tra le parti. La Casa Bianca lo ha difeso dicendo che parlare con le controparti è “standard per un deal maker”, ma il danno era già fuori controllo. Kyiv non accetta più la cornice narrativa della “pace ad ogni costo”: teme piuttosto un congelamento del conflitto che certifichi la vittoria russa sul campo, consacri l’acquisizione territoriale premiante per l’invasore e lasci l’Ucraina priva delle garanzie di deterrenza che Zelensky invoca senza sosta nei consessi internazionali.
A Odesa la popolazione vede nello stallo russo un’arte raffinata ma letale, a Kharkiv si parla apertamente di “resa diplomatica pilotata”, a Kyiv i commenti pubblici sono un fuoco di critiche senza tregua: non una pace, ma un tradimento scritto riga dopo riga da un negoziatore che ripete di voler chiudere un accordo “il più possibile” vicino alle richieste del Cremlino.
Daniel Driscoll, segretario dell’Esercito statunitense, è incaricato di proseguire i colloqui con l'Ucraina, mentre Witkoff programma un nuovo volo per Mosca, ma l’atmosfera non ha più nulla di rituale: la trascrizione trapelata ha reso impossibile fingere equilibrio.
Le analisi divergono a Washington – c’è chi, come l’ex consigliere del Pentagono Dan Caldwell, contesta l’idea che gli Stati Uniti abbiano ancora una leva decisiva per condizionare Mosca – ma a Kyiv la lettura è unanime: la leva la si usa, non la si consegna. E Witkoff, quella leva, l’ha consegnata con un tono di riverenza, non di strategia. Mentre il Cremlino dice pubblicamente di non aver “ancora discusso nel dettaglio” il piano americano, smentendo ogni entusiasmo di svolta, per Kyiv l’episodio parla da solo.
Nel grande gioco della storia, la pace non si facilita allenando l’aggressore a negoziare meglio: la pace si costruisce al fianco di chi resiste. E a giudicare dalle parole filtrate, Witkoff ha smarrito bussola, ruolo, mandato e credibilità. Kyiv ora osserva gli sviluppi sapendo che la vera partita non si gioca nelle chiamate trapelate, ma nel punto più fragile del fronte occidentale che quelle parole hanno clamorosamente esposto.
