In una regione segnata da conflitto e terrore, l’infanzia cerca ancora di respirare. È la storia di bambine e bambini dell’Ucraina vittime dell’invasione russa, ma anche testimoni — a modo loro — di speranza e resilienza. Prendiamo ad esempio la piccola Paulina, nove anni, arrivata a vivere un incubo che nessun bambino dovrebbe affrontare: è fuggita da Mariupol con i genitori che la proteggevano con il loro corpo mentre erano sotto il fuoco, e poi, nell’ovest del Paese, ha iniziato un percorso di terapia con una psicologa per cercare di riacquistare un senso di sicurezza che la guerra le ha tolto.
Il contesto è durissimo: più di 2.500 bambini in Ucraina sono rimasti feriti o uccisi dall’invasione e si stima che il numero reale sia molto più alto. Un bambino su cinque ha perso un parente stretto o un amico. Scuole e strutture educative non sono risparmiate: oltre 1.600 edifici scolastici sono stati distrutti.
Quando il pericolo diventa quotidiano – nel frastuono dei raid aerei, negli allarmi che impongono di rifugiarsi in cantina invece di giocare, nella costante incertezza – ciò che viene meno è il senso di protezione. “La guerra priva tutti di un senso di sicurezza di base, e i bambini soffrono di più perché hanno meno esperienza di vita per affrontare questi problemi”, spiega la psicologa.
Nel suo studio, la professionista accoglie decine di bimbi che sono fuggiti dalle loro città e portano con sé dolore, shock, paura. Attraverso giochi, attività manuali, musica e disegno si cerca di invertire la rotta: molti piccoli, infatti, nei loro schizzi rappresentano carri armati, missili o case – simboli forti della loro infanzia interrotta e del desiderio di rifugio.
Ma non è solo un lavoro sui bambini: è un lavoro su un ecosistema che è andato in frantumi. Gli adulti che curano, accolgono e cercano di restituire stabilità vivono a loro volta le ferite della guerra. Operatori sociali, psicologi e insegnanti, spesso sfollati o colpiti dalle perdite personali, continuano il loro impegno con coraggio, malgrado tutto.
L’effetto educativo è drammatico: a causa dell’interruzione o della modifica della scuola – con lezioni online o in modalità ibride – si registra un deficit che si traduce, in media, in due anni persi nella lettura e uno in aritmetica.
Eppure non tutti i bambini rimangono vittime passive del trauma. Alcuni trovano, attraverso l’amicizia, il gioco e il senso di appartenenza al proprio Paese, un percorso di recupero. Fondamentale risulta la regolarità: avere una routine precisa, un appuntamento fisso, un inizio e una fine per l’attività terapeutica restituisce al bambino un senso di stabilità e di protezione.
In mezzo all’orrore quotidiano, anche piccoli gesti sembrano salvifici: bere un bicchiere di latte al mattino, uscire sul balcone e sentire il canto degli uccelli, lavorare in giardino o guardare un film in famiglia sono azioni semplici ma essenziali, che creano un contrappeso all’angoscia e ricordano che la vita continua.
Questa storia, fatta di distruzione, paura ma anche cura e affetto, ricorda che quando la guerra colpisce, colpisce anche l’infanzia, che non sceglie di essere parte del conflitto ma ne è comunque vittima. Restituire a quei bambini il senso di casa, di sicurezza e di speranza significa restituire loro il futuro: non solo sopravvivere, ma tornare a vivere davvero.
