Un trasferimento da nave a nave al largo della Malesia rivela la collaborazione segreta tra Pechino e Mosca per aggirare le sanzioni occidentali
Il 18 ottobre 2025, in acque internazionali al largo della Malesia, due navi si sono affiancate per ore, lontano da qualsiasi porto o terminale. Dai satelliti e dai tracciamenti AIS – i segnali di identificazione automatica delle imbarcazioni – risulta che si trattava della Perle, una metaniera russa da 170.000 metri cubi, e della CCH Gas, una nave cisterna di proprietà della cinese Pacific Gas Shipping Ltd., registrata a Hong Kong. Le due unità avrebbero effettuato un trasferimento da nave a nave (STS) di gas naturale liquefatto, un’operazione tanto complessa quanto inusuale: il GNL richiede condizioni criogeniche e protocolli di sicurezza rigorosi, difficili da mantenere in mare aperto. Eppure, le immagini satellitari mostrano chiaramente le due navi accostate, in una posizione compatibile con il passaggio di carico.
Secondo analisi indipendenti, la Perle aveva caricato il suo GNL presso l’impianto russo Portovaya LNG, sul Mar Baltico. L’impianto, gestito da Gazprom, è da tempo soggetto a sanzioni statunitensi: il suo gas, formalmente, non dovrebbe essere commercializzato in mercati occidentali o asiatici che rispettano le restrizioni americane. Nonostante ciò, la nave russa ha compiuto un lungo viaggio verso il Sud-Est asiatico, con tracciamenti parziali e deviazioni che fanno pensare a un’operazione di occultamento pianificata. Il trasferimento alla CCH Gas è così diventato il primo episodio documentato di GNL sanzionato russo trasferito a una nave cinese in quella regione.
La data del 18 ottobre è cruciale perché dimostra che la cooperazione energetica tra Mosca e Pechino era già pienamente operativa prima del nuovo pacchetto di sanzioni. Il trasferimento di GNL tra la Perle e la CCH Gas, avvenuto pochi giorni prima dell’annuncio delle misure statunitensi del 22 ottobre contro Rosneft e Lukoil, rende evidente che la Russia e la Cina avevano già costruito canali alternativi per aggirare i divieti esistenti. In questo contesto, le nuove sanzioni non appaiono come una mossa punitiva isolata, ma come un atto necessario per interrompere una rete di scambi energetici sotterranei che stava consolidandosi tra i due Paesi. Washington, osservando queste manovre in mare e i segnali di triangolazioni commerciali via Hong Kong, ha compreso che il sistema di restrizioni esistente non bastava più: la Cina stava di fatto garantendo a Mosca una via di fuga economica. Le sanzioni del 22 ottobre sono quindi diventate indispensabili per tentare di spezzare un legame che, sotto la superficie della diplomazia, univa già i due regimi in una strategia comune di elusione energetica.
L’operazione di ottobre non può essere interpretata come un caso isolato. È la prova tangibile che la Russia sta costruendo una rete di esportazione parallela – una “flotta ombra” di navi che operano al di fuori delle rotte ufficiali, spesso con i transponder spenti e in zone difficilmente monitorabili – e che la Cina ne è parte integrante. È in questo contesto che Pechino, pur continuando a proclamarsi “neutrale” rispetto alla guerra in Ucraina, si presenta come l’architetto silenzioso di una rete di elusione che consente a Mosca di vendere energia sanzionata e ottenere liquidità per finanziare il conflitto.
La posizione della Cina appare duplice. Da un lato, si propone come mediatore globale, fautore di un ordine multipolare e promotore di dialogo. Dall’altro, consolida il proprio ruolo di partner strategico della Russia, garantendole accesso a mercati, infrastrutture e compagnie di facciata capaci di aggirare i controlli occidentali. Hong Kong, con la sua regolamentazione più flessibile e la sua distanza formale da Pechino, è diventata un anello chiave di questa catena: molte delle navi coinvolte in trasferimenti sospetti di petrolio o gas russo risultano registrate proprio lì.
Dal punto di vista tecnico, l’operazione al largo della Malesia rappresenta un salto di qualità. Finora, i trasferimenti “ombra” riguardavano quasi esclusivamente il petrolio, più facile da gestire e meno costoso da movimentare. Portare il GNL in mare aperto, invece, significa disporre di attrezzature specializzate, equipaggi addestrati e un coordinamento tra le parti che presuppone un accordo stabile e pianificato. Non si tratta di un esperimento improvvisato, ma di un sistema logistico concepito per funzionare nel lungo periodo.
Per l’Occidente, questo episodio segna un punto di svolta. Le sanzioni contro il gas russo, pensate per ridurre gli introiti energetici del Cremlino, rischiano di perdere efficacia se nuovi canali commerciali – legittimati o tollerati da Paesi come la Cina – permettono di mantenere in vita i flussi di esportazione. È un problema non solo economico, ma politico: ogni metro cubo di GNL venduto rappresenta entrate fiscali che alimentano l’industria bellica di Mosca.
La Cina, intanto, continua a parlare di pace e stabilità globale. Ma i fatti raccontano una storia diversa. L’operazione della Perle e della CCH Gas dimostra che Pechino non si limita a “non prendere posizione”: lavora attivamente per proteggere la rete economica russa dalle restrizioni occidentali. Mentre il mondo ascolta i suoi appelli alla diplomazia, le sue navi trasportano – lontano dagli occhi di tutti – il gas che tiene in moto la macchina da guerra del Cremlino.


