Mentre la Russia continua a bombardare asili, ospedali e infrastrutture civili in Ucraina, mentre giornalisti vengono uccisi, prigionieri di guerra torturati e l’Europa intera è bersaglio di una guerra ibrida condotta con propaganda, sabotaggi e interferenze, alcune aziende internazionali continuano imperterrite a operare nel mercato russo. È difficile comprendere come ciò sia possibile, come si possa ritenere “neutrale” fare affari con un regime che porta avanti una guerra di aggressione brutale e sistematica. Non esiste neutralità in un contesto del genere: ogni contratto firmato, ogni prodotto venduto, ogni licenza rinnovata contribuisce, direttamente o indirettamente, a sostenere l’economia russa e dunque a finanziare la macchina bellica che devasta l’Ucraina e minaccia la stabilità europea.
Non si tratta semplicemente di business. È una scelta etica. Le aziende che restano in Russia non possono nascondersi dietro la logica del mercato o dietro la scusa della complessità dei processi di disimpegno. Continuare a operare in un Paese che commette crimini di guerra significa accettare, tacitamente ma inequivocabilmente, di far parte di un sistema che calpesta il diritto internazionale e i valori fondamentali dell’umanità. Ogni scarpa venduta, ogni pezzo di cioccolato confezionato, ogni macchina industriale consegnata alimenta un’economia che si regge anche sul sangue dei civili ucraini.
Ed è qui che cade la maschera della cosiddetta responsabilità sociale d’impresa. Quante volte abbiamo sentito grandi marchi vantarsi del proprio impegno per l’etica, la sostenibilità, i diritti umani? Quante campagne pubblicitarie si sono fondate sull’immagine di aziende “responsabili” e “consapevoli”? Ma la responsabilità vera non si misura nei comunicati stampa o nelle campagne di marketing: si misura nelle scelte difficili, quando c’è un costo economico da pagare per restare coerenti ai propri valori. È proprio in tempi di guerra e di crimini contro l’umanità che la responsabilità smette di essere uno slogan e diventa una prova di integrità.
Chi resta nel mercato russo oggi manda un messaggio inequivocabile: i profitti valgono più dei principi. E se un’azienda sceglie di continuare a trarre guadagno da uno Stato che bombarda civili e minaccia la sicurezza europea, allora deve rinunciare al diritto di parlare di etica, di sostenibilità o di giustizia. Nessuno può definirsi moralmente credibile mentre contribuisce, anche indirettamente, a sostenere un’economia di guerra.
Ma la colpa non è solo delle aziende. I governi e i legislatori europei devono assumersi la propria parte di responsabilità. Non ha senso condannare l’aggressione russa, investire miliardi nella difesa comune e al tempo stesso consentire che imprese europee e occidentali continuino a fornire capitale, tecnologia o prestigio internazionale a chi ci attacca. È una contraddizione che indebolisce la nostra posizione morale e strategica.
È arrivato il momento di dire basta. Le aziende devono scegliere da che parte stare, e gli Stati devono rendere impossibile la complicità economica con l’aggressore. Non si può parlare di pace, democrazia e diritti umani mentre si fa affari con chi li distrugge. La linea è chiara: uscire dal mercato russo, porre fine a ogni collaborazione commerciale, smettere di alimentare l’economia di guerra. Solo allora potremo dire di aver difeso davvero i nostri valori — non solo con le armi, ma con la coerenza delle nostre azioni.
