C’è un’ironia crudele, quasi teatrale, nel fatto che il nuovo “vertice per la pace” si tenga proprio a Budapest. È lì che nel 1994 fu firmato il Memorandum che garantiva la sovranità dell’Ucraina in cambio della rinuncia al suo arsenale nucleare. Una promessa solenne, infranta ventotto anni dopo dai carri armati russi. E ora, sulla stessa riva del Danubio, tornano in scena i protagonisti del disincanto globale: Vladimir Putin, l’uomo che ha demolito quel patto; Donald Trump, il presidente che oscilla tra minacce e abbracci a seconda dell’umore del giorno; e Viktor Orbán, il perfetto padrone di casa, ansioso di servire il tè della “neutralità” a chi ha fatto dell’ambiguità una strategia di potere.
È un summit che sa di schiaffo. All’Ucraina, che vede il carnefice sfilare nel luogo del tradimento con il beneplacito americano. All’Europa, che si scopre di nuovo spettatrice di un copione scritto altrove. E alla Storia stessa, che osserva sconcertata mentre i protagonisti della disinvoltura internazionale mettono in scena un teatro dell’assurdo spacciato per diplomazia.
Trump, come sempre, applica la sua dottrina dello yo-yo: un giorno tuona contro Mosca e promette missili a Kyiv, il giorno dopo si scioglie davanti ad una telefonata di Putin e archivia tutto come se fosse una sceneggiatura da show televisivo. È la geopolitica trasformata in reality: tanto rumore, nessuna coerenza, un solo obiettivo — restare al centro della scena.
Orbán, intanto, sorride come chi ha vinto la sua personale partita: da isolato a protagonista, da spina nel fianco d’Europa a mediatore autoproclamato. L’Ungheria, Paese dell’Unione ma in rotta di collisione con Bruxelles, si ritrova al centro dei riflettori. E il Castello di Buda diventa la passerella perfetta per l’alleanza degli opportunismi, dove la fedeltà ai principi conta meno dell’occasione di una foto.
Putin, naturalmente, si gode il momento. Ritorna a Budapest non per rievocare il passato, ma per ribadirne la riscrittura: il Memorandum di allora non è più un vincolo, ma un trofeo. L’uomo che ha violato la parola data si presenta come garante della pace, e nessuno — né l’America altalenante, né l’Europa stordita — sembra avere il coraggio di chiamare l’assurdo con il suo nome.
Così, tra brindisi e dichiarazioni, Budapest diventa la metafora di un mondo rovesciato: un Paese dell’Unione che fa da passerella ai protagonisti del potere solitario, un presidente americano che tratta la Storia come uno show, e un autocrate russo che brinda sul silenzio dell’Europa. Il Danubio scorre come allora, ma questa volta non riflette le luci dell’accordo: solo l’ombra lunga del tradimento e il sorriso compiaciuto di chi, tra un applauso e una stretta di mano, si crede ancora il salvatore del mondo.
