Rileggere il testo pubblicato su Soviet Russia Today da Anna Louise Strong nell'ottobre 1939 sull’ingresso dell’Armata Rossa in Polonia orientale è come sfogliare un manuale retorico che non ha mai smesso di essere ristampato. Allora come adesso, le stesse parole ricorrono: la marcia militare non è un’aggressione, bensì una “marcia per la pace”; l’occupazione non è conquista, ma “liberazione”; le popolazioni locali non sono soggetti autonomi, ma masse caotiche bisognose di tutela.
Il lessico non è mutato: Mosca “vuole la pace”. Lo si ripete ossessivamente, come se la ripetizione stessa potesse trasformare una menzogna in verità. Ogni azione militare viene presentata come preventiva, difensiva, inevitabile: impedire la nascita di un’Ucraina fascista allora, combattere il nazismo o il neonazismo oggi. Sempre la stessa narrazione salvifica, sempre la stessa autoassoluzione.
Questa continuità non è casuale: è memoria istituzionale, tradizione consolidata. La macchina retorica russa funziona da ottant’anni con sorprendente costanza, lucidando con nuove sfumature gli stessi concetti fondamentali. Dietro l’apparente evoluzione, il copione resta invariato: trasformare la conquista in missione umanitaria, la guerra in pace, l’espansione in protezione.
Dal 1939 al 2025, ciò che colpisce non è tanto l’evoluzione della retorica di Mosca, quanto la sua immutabilità. Ancora più sconcertante è il fatto che, nonostante decenni di prove contrarie, in Occidente ci siano persone pronte ad accettare queste narrazioni come se fossero verità. È come se continuassero a bere da un pozzo avvelenato, incapaci o non disposti a riconoscere la tossicità del messaggio. Gli scenari geopolitici cambiano, i confini si spostano, ma la melodia resta sempre identica: un copione che si ripete, fedele alla sua partitura originaria.
